Ho affrontato il percorso diagnostico a 52 anni, ed oggi so di essere autistica. La specialista che mi segue dice che le diagnosi degli adulti sono accolte con due modalità: con un “mi sento un extraterrestre” oppure con un “mi vanno a posto i pezzi del puzzle”. Io ho pensato che la diagnosi mi chiude un cerchio, e mi rende leggera leggera.
Ero già in analisi con una psicoterapeuta quando ho deciso di rivolgermi ad un esperto di autismo, e la psicoterapeuta mi dice che oggi, alla luce della diagnosi, dobbiamo rileggere all’indietro i tre anni di analisi trascorsi insieme, perché (per esempio) l’evitamento dello sguardo o il tono di voce perentorio assumono un significato completamente diverso se agiti da un autistico, cioè non sono sintomo di disagio o di arroganza ma solo di diversità.
E dunque.
E dunque ho la psicoterapeuta junghiana da un lato, e la psicoterapeuta specializzata in autistici dall’altro. La prima mi ha aiutato a sopravvivere alle occasioni sociali insegnandomi che posso “darmi il permesso” di andar via quando è troppo; la seconda mi ha spiegato che per gli autistici non si tratta di “permesso”.
Non si tratta di “permesso”, o “diritto”, cioè uno di quei temi che pescano nel mare tropicale del nostro inconscio pieno di squali genitoriali: si tratta invece di regole, regole rigide, la rigidità autistica, insomma.
In pratica, essendo noi autistici immersi in una società a maggioranza non-autistica, capita che per necessità ne impariamo le regole. O meglio, per noi che le osserviamo dall’esterno sono regole, per chi le ha generate sono un modo di essere spontaneo e fluido. Quando noi le acquisiamo, non ne comprendiamo la morbidezza e vi rimaniamo intrappolati, finché troviamo una scappatoia: una nuova regola per infrangere in modo controllato la regola precedente. Nel mio caso, alla rigidità della regola del “divertirsi nell’occasione sociale”, avevo apposto la regola di interruzione del “una volta ogni ora esco 10 minuti con una scusa diversa”. Cioè ho creduto di mimare la morbidezza con una sequenza di due regole…
E ancora, la mia psico-junghiana mi chiedeva conto della mia ossessività nel fare colazione nello stesso modo da 52 anni, e della mia refrattarietà ad assaggiare cose sconosciute; dall’altra, la psico-autistici mi dice che si tratta della rigidità autistica: dovendo fare i conti con migliaia di variabili impazzite, dovute all’imprevedibilità dei non-autistici, cerco di “fissare” ciò che so che mi piace e funziona, per dedicarmi a vivere con fatica il resto della vita.
Insomma, mi sembra di aver bisogno di osservare daccapo ciò che ho vissuto, per dargli un ulteriore significato. I critici letterari sanno che ogni opera d’arte ha più sensi, ed io sto cercando di non fermarmi al primo significato della mia biografia. Oggi è il turno della rilettura del significato di “rigidità”.
Ti scrivo con un po’ di timore, perchè già sono marchiato a fuoco dalla convivenza con una moglie che manifesta molti dei sintomi che descrivi. Vorrei sapere se sei sposata e se hai figli, per sapere da te come sono queste relazioni familiari, con marito/compagno e soprattutto con i figli, come loro vivono soffrono e metabolizzano le difficoltà
Sono sposata da tre anni e non ho figli miei; mio marito era vedovo e aveva figli dal precedente matrimonio, così sono nonna!
Ho avuto altre relazioni prima di questa, ma oggi con mio marito vivo e lavoro, e sono felice. Siamo counselor.
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