ADVOCACY: reminder autocritico

Ormai da un po’ di tempo assistiamo a una polarizzazione nella comunità che si occupa di divulgazione e trattazione del tema Autismo.

Da una parte ci sono i genitori, con la loro prospettiva, le loro idee, le loro percezioni e legittime preoccupazioni.
Dall’altra ci sono gli autistici adulti, le cui prospettive, idee, percezioni e preoccupazioni sono, ovviamente, differenti.

Una parte della comunità autistica mondiale, tra cui la sottoscritta, sta dedicando moltissime energie a concepire e divulgare una visione della neurodiversità volta a superare lo status di condizione pseudo-medica come carattere prevalente, per suggerire un’interpretazione di stampo sociale e culturale, ovvero proporre la neurodiversità come una delle tante variabili della natura umana, con tutti i suoi diritti e valori, che non necessariamente corrispondono a quelli degli altri.
Stiamo parlando di legittimare un modo di essere con tutte le sue peculiarità e “stranezze”, che ai conservatori della razza pura (consapevoli e non) fanno tanto perversione.

Le motivazioni a capo di queste istanze sono tutt’altro che prive di fondamento.
Le persone autistiche denunciano una serie di incongruenze tra la propria esperienza della condizione e quanto ne viene percepito dall’esterno.
Dall’interpretazione del significato delle stereotipie (cercate l’ashtag #autismospiegatodagliautistici su facebook) all’incidenza delle problematiche sensoriali sulla qualità della vita, passando per i presunti deficit di teoria della mente, la lista è decisamente lunga.

In una società che considera la disabilità una caratteristica intrinseca dell’individuo, tanto da definirlo, a scanso di equivoci, disabile, c’è un disperato bisogno di riflettere sul fatto che la disabilità è, in effetti, la conseguenza del modo in cui la società risponde alle esigenze di individui che hanno caratteristiche intrinseche atipiche, che siano di carattere motorio, cognitivo, neurologico o altro.

Le persone disabili o, come suggerisce più accuratamente la lingua britannica, disabilitate (dalla società), così come le persone appartenenti a categorie minoritarie (lgbt, neurodiversi, etc), hanno bisogno di vedersi riconosciuti alcuni diritti fondamentali che troppo spesso diamo per scontati o consideriamo secondari rispetto a quelli strettamente legati alla sopravvivenza fisica, trascurando l’integrità e talvolta la sopravvivenza psichica, emotiva e sociale.
Stiamo parlando di diritti come la dignità, il riconoscimento di un valore sociale oltre la prospettiva abilista, la legittimazione di quelle caratteristiche che differiscono in qualche modo dalla tipicità, altrimenti ritenute prova della natura guasta dell’individuo.

Quanto sopra rende sacrosanto tutto il lavoro di self advocacy che viene fatto, eppure… qualcosa disturba, qualcosa inquina il pattern, lo rende poco fruibile, meno leggibile, confuso quindi meno contestabile, di conseguenza meno attendibile.

Ahimè, sono sempre stata quella che, a prescindere dal proprio schieramento ideologico, si dedica a mettere in discussione i principi e le dinamiche interne alla fazione d’appartenenza. Attitudine questa, che nel tempo mi è valsa antipatie e fraintendimenti. D’altronde la propria prospettiva è quella che frequentiamo di più, indentificarne i limiti e le incongruenze, avvertirne il rollìo stonato degli ingranaggi non ben allineati è quasi inevitabile e a quel punto sottolinearlo è un fatto compulsivo, irresistibile.

Quando si utilizzano il proprio vissuto e la propria esperienza come argomenti per evidenziare l’esigenza di un riscatto sociale e umano, si corre su una linea di confine molto sottile, che separa l’intento virtuoso e assolutamente legittimo da un suo risvolto feticistico.

Cadiamo dall’altra parte ogni volta che ci accontentiamo di logiche troppo facilmente condivisibili, prima di far nostra una causa;
ogni volta che ripetiamo slogan ormai assimilati, rimarcando più un’appartenenza che un significato;
ogni volta che crediamo di intuire i motivi che spingono un genitore o un insegnante a fare un’affermazione per noi stonata;
ogni volta che applichiamo modelli di pensiero senza averli messi in discussione per la milionesima volta;
ogni volta che “eh vabeh ha sbagliato a usare quel termine, ma l’importante è che se ne parli”;
ogni volta che “non si dice così, si dice colà e per questo verrai messo in un angolo e costretto a dondolare e batterti il petto”;
ogni volta che il risentimento per una vita di difficoltà supera la riflessione sullo stesso;
ogni volta che usiamo la lotta per il diritto all’autodeterminazione come pretesto per non impegnarci a diventare il migliore autistico possibile, crogiolandoci di fatto nelle nostre miserie, quasi fossero ormai parte della nostra identità, un’identità ben più radicata di quanto sarà mai quella autistica;
ogni volta che crediamo di aver vinto una battaglia senza accorgerci che stavamo combattendo contro chi lotta per le stesse istanze, solo lo fa da una prospettiva differente.

Fare advocacy è importante, è quello che da sempre trasforma le utopie in società, per questo riflettere su cosa stiamo facendo, perchè lo stiamo facendo e come lo stiamo facendo, dovrebbe essere una prassi individuale e condivisa almeno frequente.

Fare advocacy è importante, facciamolo bene!

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Neuropeculiar

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