Beninteso, lungi da me minimizzare le responsabilità dell’autore dell’articolo[1] in cui si definisce “autismo emotivo” quel vuoto cosmico che albergherebbe nelle menti e nei cuori della gioventù del nostro tempo e che, secondo lui, starebbe alla base di gravissimi comportamenti criminosi, solo non vorrei che finissimo per credere che TUTTA la responsabilità sia sua, trasformandolo in un capro espiatorio. Mi spiego meglio.
Quello di Crepet non è un caso isolato. Ci imbattiamo continuamente in articoli, post, pubblicità, racconti in cui l’autismo viene rappresentato in modo da alimentare stigma e discriminazione. Sono certa che nella maggior parte dei casi questo non accada in malafede e che le persone siano mosse da un intento sinceramente costruttivo, che però non basta a garantire che il risultato corrisponda alle intenzioni.
Penso che tutti noi, genitori, autistici e professionisti, abbiamo tutto l’interesse di offrire il miglior contributo possibile alla causa, eppure capita che proprio il nostro contributo divenga parte del problema, invece che della soluzione. Succede quando siamo i primi a non aver bonificato il nostro pensiero e il nostro linguaggio in relazione all’autismo [2], così ci ritroviamo a contestare -giustamente- un articolo che usa metafore stigmatizzanti, usando a nostra volta espressioni grossolane e discriminanti, come “disabile mentale” o “affetto da”. Eh sì, è accaduto proprio in risposta all’articolo di Crepet. Come dire, se dobbiamo difenderci così, forse è meglio tacere.
Non basta essere autistici, genitori di autistici o professionisti che lavorano con l’autismo per aver maturato una consapevolezza sulle implicazioni sociali dell’uso di certi termini o, più in generale, di una narrazione prevalentemente patologizzante. Anzi, avere a che fare più o meno direttamente con l’autismo espone a una certa vulnerabilità e un’ovvia perdita di oggettività, per cui è molto facile che a parlare siano le proprie frustrazioni e i propri dolori e non necessariamente in modo costruttivo. Accade che ci troviamo a stretto contatto con certi aspetti ed esperienze, che siamo in grado di raccontare con dovizia di particolari, ma la nostra visuale si restringe su di essi e tendiamo a generalizzare prima e assolutizzare poi, quelle che sono percezioni e convinzioni soggettive, che successivamente scagliamo come frecce avvelenate contro chi ci fa danno, magari senza essersene nemmeno reso conto.
Forse dovremmo fare un passo indietro e chiederci il perché, il mondo là fuori, parla di autismo in questo modo. Non è perché dondoliamo o perché alcuni di noi hanno una disabilità cognitiva o ancora perché siamo strani, so che è facile pensarla così.
Il mondo là fuori parla di autismo in questo modo perché glielo abbiamo insegnato noi.
Lo ripeto.
Il mondo là fuori parla di autismo in questo modo perché glielo abbiamo insegnato noi.
Per questo affermo che il problema non sia Crepet, lui è la conseguenza di un problema che abbiamo generato noi e che non ci stiamo chiedendo come risolvere, semplicemente perché non ce ne stiamo assumendo la responsabilità.
La soluzione sta nello studio, nella riflessione sulla complessità delle dinamiche sociali, nell’attingere ai Critical Autism Studies[3] e ai Disability Studies[4], nel comprendere come si è strutturata l’idea dell’autismo, come anche di altre condizioni, nell’immaginario collettivo.
Abbiamo bisogno di comprendere attraverso quali dinamiche una differenza viene socialmente patologizzata fino a creare e legittimare la percezione di una disparità di valore, che non è giustificabile a fronte di alcun deficit, che sia reale o percepito tale.
Abbiamo bisogno di capire che il linguaggio medico non è spendibile nella divulgazione di destinazione sociale, perché produce esiti che tutti noi riconosciamo come disumanizzanti e che cerchiamo di combattere con le stesse armi che li hanno generati.
Alice Sodi – Presidente NEUROPECULIAR APS Movimento per la Biodiversità Neurologica
[2] https://neuropeculiar.com/2019/11/16/riconoscersi-tra-pari/
[3] https://www.erickson.it/it/l-autismo-oltre-lo-sguardo-medico
Sono d’accordo al 100% con la soluzione. Grazie per questo saggio così astuto!
Grazie a te. Serve senza dubbio un’assunzione di responsabilità.