Fisiognomica della sintomatologia

Articolo tratto da Détournemente

A volte penso di essere fortemente dissociato e vivere in più realtà parallele. Quando mi trovo in certi contesti, leggo articoli, commenti, discussioni sull’autismo, penso “in questi tre anni (riferito a quando sono stato diagnosticato) ne abbiamo fatta di strada. La narrazione dell’autismo è davvero cresciuta, maturata ed ha abbandonato il paradigma biomedico”. È qualcosa che mi fa vedere un futuro dove la società può davvero vivere di differenze senza discriminarle. Poi càpito sotto il post di alcune associazioni di genitori di soggetti autistici (non sono tutte uguali, fortunatamente) che fa un’associazione uno a uno tra autismo e disabilità intellettiva, nulla di più sbagliato, o si rivolge ai figli dei propri soci con un bel “persone affette da autismo”, mettendo un tocco di patologizzazione come ciliegina, oppure leggo l’intervista alla nota professionista di turno che, per vendere il suo libro, butta lì un bel “guardare un’altra persona negli occhi e di stabilire con lei una connessione” attingendo più alla credenza popolare che alla scienza.
Le maggiori perplessità però, mi vengono in relazione a post, interviste e video di autistici o a ciò che leggo nei gruppi Facebook ai quali sono ammessi solo gli autistici, perché noto che c’è ancora una forte tendenza a descrivere il proprio funzionamento come la somma di una serie di deficit, attingendo ai manuali diagnostici o ai libri scritti da professionisti non autistici. L’idea che alla base di ciò ci sia una scarsa consapevolezza e il ricercare il riconoscimento da parte di altri autistici solo attraverso questi sintomi, è molto forte. Questa modalità di pensiero genera la ricerca di conferme e affiliazione attraverso domande quali: “ma anche voi avete questo?”, “ma anche a voi capita così?” et similia. Questo è quello che io definisco “fisiognomica della sintomatologia”: consiste nel crearsi un’immagine di sé, che sia aderente alle aspettative sociali e sentirsi parte della/delle comunità autistica/che, unicamente attraverso la descrizione sintomatica della propria condizione. Un’immagine così costruita non può portare, secondo me, a comprendere cosa davvero sia l’autismo tanto che, ne sono quietamente certo, se si domandasse “cos’è l’autismo?” come risposta si avrebbe solo la lista dei sintomi appresi dagli specialisti, senza riuscire a trasmettere qual è la sua essenza, nel migliore dei casi possiamo aspettarci il famigerato “un sistema operativo differente”. Il mix tra il costruire il sé attraverso i sintomi e l’uso del linguaggio medico porta a definizioni quali “autistico lieve”, che a me richiama immediatamente l’immagine di un autistico lievitato, oppure alla necessità di specificare il proprio funzionamento intellettivo o il livello di supporto.


Questo fenomeno viene vissuto da tutti gli autistici, ci sono passato anche io, in quella fase di liminalità che si attraversa tra il “come si era” prima della diagnosi e “come si diventa” dopo aver riflettuto sul proprio passato e sul proprio sé a seguito della stessa. C’è chi, ahimè, resta in questa zona liminale per molto tempo, qualcuno per sempre.
La fase della “fisiognomica della sintomatologia” riguarda anche i genitori di autistici che domandano, nei gruppi a frequentazione mista, se quello che i loro “bambini speciali” (definizione loro e non mia) fanno è comune ad altri autistici, iniziando a leggere qualsiasi azione del pargolo come sintomo dell’autismo. Spesso le domande che leggo mi lasciano davvero perplesso perché alcune sono del tipo “il mio piccolo angelo si scaccola il naso. Anche voi lo fate? È dovuto all’autismo?”.
Ribadisco che sono fasi più che lecite e comprensibili, in una qualche misura anche funzionali, attraverso le quali tutti passiamo, se restano delle fasi. Nel momento in cui si cristallizzano, c’è un problema.
Il problema, dal mio punto di vista, emerge quando queste persone, che siano autistici, genitori o genitori autistici, fanno attivamente informazione, attivismo, advocacy. Assistiamo, allora, a contenuti che ruotano prevalentemente sul modello biomedico e da quello attingono per costruire la narrazione, spesso basandosi anche su modelli o teorie ampiamente superate (vedi quella della mancanza di empatia e della Teoria della Mente). Il messaggio che viene veicolato è la richiesta al “mondo neurotipico”, di fare la “cortesia”, per gentile concessione, di avere rispetto dei nostri “deficit” e di accettarci così, dandoci dello spazio in cui poter stare. Solo che non stiamo parlando di “gentili concessioni”, ma di diritti, diritti che le persone neuroatipiche hanno per il solo fatto di essere persone, al pari delle altre. E questo nel migliore dei casi, perché spesso il messaggio è anche peggiore.
Spesso quello che manca a chi approccia questa attività è la conoscenza dell’autismo attraverso le scienze sociali e quindi tutto il lavoro svolto dai Disabilities Studies [1] [1a] , Critical Autism Studies [2] e Neurodiversity Studies [3], la conoscenza del modello sociale della disabilità, l’aver maturato una consapevolezza personale di cosa sia l’autismo al di là dei suoi sintomi e l’aver acquisito un linguaggio che non è figlio di quello biomedico. Anche la conoscenza di ciò che è realmente la neurodiversità [4] è scarsa e spesso viene associata all’autismo o alle neuroatipicità (o neurodivergenze) mentre la neurodiversità rappresenta la biodiversità neurologica e comprende tutte le sue espressioni, incluso la neurotipicità.
La strada per arrivare ad un linguaggio utile a fare cultura di inclusione, e ad avere molte persone che siano promotrici di questa cultura, è ancora lunga perché si è troppo radicati in una visione dell’autismo che non è quella creata dagli autistici e che autistici, genitori e professionisti faticano a eradicare. Manca ancora una reale cultura, che sia sufficientemente condivisa all’interno della comunità autistica, che a volte assomiglia più ad un conglomerato di tribù, e che possa fare da motore alle istanze sociali degli autistici ed aiutare a definire l’autismo stesso al di là dello sguardo medico.

[1] Disability Studies: Emancipazione, inclusione scolastica e sociale, cittadinanza, di Roberto Medeghini, Simone D’Alessio, Angelo Marra, Giuseppe Valdalà, Enrico Valtellina – edizioni Erickson
[1a] https://disability-studies.leeds.ac.uk/
[2] L’autismo oltre lo sguardo medico, di Enrico Valtellina (a cura di), edizioni Erickson
[3] Neurodiversity Studies A New Critical Paradigm Edited By Hanna Bertilsdotter Rosqvist, Nick Chown, Anna Stenning – https://www.taylorfrancis.com/books/e/9780429322297
[4] Cos’è la neurodiversità, Traduzione da un contributo originale di Judy Singer – https://neuropeculiar.com/2020/03/14/che-cose-la-neurodiversita/

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