Dove vogliamo andare a parare con le nostre chiacchiere

English version below

(L’articolo fa uso di schwa e alterna femminile e maschile sovraesteso nel rispetto della sensibilità di tuttǝ)

Da qualche tempo in Italia è andato creandosi un movimento che mira all’emancipazione sociale delle persone autistiche e chi ci segue lo sa fin troppo bene.
Come spesso accade, quando ci troviamo di fronte a qualcosa di nuovo e, per certi versi, inaspettato, si fa un po’ di fatica a cogliere subito il senso del fenomeno, le sue dinamiche e finanche le sue motivazioni. Diciamo che non è scontato coglierne la complessità, anche per chi ne è in qualche modo parte, come la sottoscritta, e il rischio è quello di fraintendere o di porre letture un po’ semplicistiche e approssimative, talvolta svilenti.

Quello con cui abbiamo a che fare, dal mio punto vista, riguarda l’annosa questione delle categorie mediche che vengono assimilate come categorie sociali.
Per farla semplice, se rientri in una categorizzazione medica, soprattutto se a fronte di una condizione stabile (disabilità motoria, sordità, autismo etc.), automaticamente assumi uno status: la categorizzazione medica ti definisce come eccezione alla norma, non solo in senso clinico, ma anche in senso strettamente sociale.
Essere un’eccezione alla norma, in società, è una posizione di svantaggio e lo è nonostante -talvolta anche per- i tentativi, propri o altrui, di romanticizzare tale diversità.
Coloro che appartengono alla maggioranza sono spesso a disagio nel relazionarsi con chi è differente da loro perché, cresciutǝ in una società normocentrica, non hanno gli strumenti per leggere la diversità come facente parte la normalità, siamo tuttǝ condizionatǝ -divergentǝ compresǝ!- a considerare la norma come metro di valore a cui fare riferimento, quando l’unica cosa normale è proprio la variabilità, il fatto di essere umanǝ in tanti modi diversi.

Invece di pensare alla società come fosse formata da gruppi di persone, categorizzati secondo diversi criteri, che purtroppo si traducono in diversi gradi di valore sociale e diritti, proviamo a pensarla come fosse un tessuto, il famoso tessuto sociale. Ebbene la trama di un tessuto è costituita da moltissimi fili, molti dei quali si somigliano tra loro, ma non sono tutti identici. Anche se diversi, contribuiscono tutti quanti a rendere il tessuto quello che è e perfino in ambito tessile siamo arrivati a capire che “eventuali irregolarità o non uniformità del tessuto non sono da considerarsi difetti, ma testimonianza del valore e dell’autenticità del prodotto”.

“Ok. Ma con tutti questi discorsi, voi persone autistiche, dove volete andare a parare? Ci sono moltǝ di voi che hanno bisogno di sostegno, alcunǝ in modo consistente, quindi non potete negare la necessità di un’interpretazione medica, c’è bisogno di servizi!”
Certo che c’è bisogno di servizi. C’è bisogno di medici. C’è bisogno di operatori. C’è bisogno di sostegno adeguato ai bisogni di ognunǝ. Non c’è nulla di male ad avere esigenze cliniche e non c’è nessun motivo di vergognarsene o prenderne le distanze.
Evidenziare le problematiche relative all’assimilazione delle categorie mediche come categorie sociali, non significa suggerire di far finta che non esistano problemi di natura clinica, né significa rinnegarli.

La questione è un’altra, ovvero che al resto del mondo le nostre questioni cliniche non devono interessare, o meglio, sarebbe auspicabile che si relazionassero con noi in quanto individuǝ completǝ, pur prendendo atto che ci serve una sedia a rotelle, o un paio di cuffie insonorizzanti per il rumore o che abbiamo bisogno di agire le nostre stereotipie, o che pensiamo in modo diverso, altrimenti quello che accade è che veniamo messǝ su un altro piano, smettiamo di essere persone col diritto di avere pregi, difetti, bisogni e soprattutto desideri e aspirazioni. Diventiamo quellǝ sulla sedia a rotelle. L’autistica. Il sordo. Diventiamo la nostra categoria medica di appartenenza.
Tutto questo però non dipende dal fatto di sfoggiare la carrozzina o essere apertamente e sfacciatamente autistici, dipende dal fatto che la società non è davvero capace di vederci come individui, per quanto possiamo raccontarci, perché la categorizzazione medica ci pone su un altro piano, che prevede il riconoscimento di alcuni specifici diritti (assistenziali ad esempio), ma che non prende in considerazione tutti gli altri, come se, dato che già necessitiamo di un tipo di sostegno che non serve agli altri, allora dobbiamo ritenerci fortunatǝ che ci venga concesso quello e capire che, cose come voler viaggiare, studiare, lavorare, amare, sbagliare, arrabbiarsi, godere, sono secondarie e quindi trascurabili. Siamo disabili/diverse, quindi dobbiamo concentrarci a sopravvivere, vivere è per i sani e non è mica colpa delle altre persone se noi siamo conciatǝ così.

Questo accade quando siamo costrettǝ ad indossare categorizzazioni mediche in società e siamo così assuefattǝ al sistema in cui viviamo che tutto questo ci pare normale o inevitabile, perché alla fine “a ‘stǝ poveraccǝ gli è toccata una malasorte e noi che ci possiamo fare?”.
Ci possiamo fare molto.

Tutto il processo descritto sopra non è imprescindibile! Accade perché, quando parliamo al mondo là fuori di quelle condizioni, lo facciamo con un linguaggio patologizzante: affetto da autismo, l’autismo è una patologia, soffre di autismo, soffre di sediarrotellismo.
Ma possiamo vivere in un contesto sociale che ci ricorda continuamente che siamo tanto sfortunatǝ, stortǝ e che soffriamo o -secondo la maggioranza- dovremmo soffrire di qualcosa? Che sia vero o meno, non ci aiuta.
Ecco perché parte di coloro che fanno attivismo per l’autismo tengono molto a questa istanza, certamente non perché rifiutano l’idea di aver bisogno di aiuto o per un moto di orgoglio mal riposto, che personalmente non condivido, come ho approfondito in un articolo di qualche tempo fa.

Si tratta di iniziare a pensare la disabilità secondo il paradigma sociale, lasciando il paradigma medico dietro alle porte degli ospedali.
Se non posso camminare, la società è responsabile di essere accessibile anche per me, a prescindere che io mi definisca malata, non devo essere costretta a ridurre la mia vita ad emblema della mia patologia o condizione – impropriamente – medicalizzata per avere servizi. E’ una cosa disumanizzante, di una violenza inaudita e noi l’abbiamo interiorizzata e quindi normalizzata.

Bisogna trovare parole nuove, neutre, per parlare di individui che hanno bisogni diversi, smettere di attingere al linguaggio medico per raccontare le persone al mondo, perché quel linguaggio è adatto a un ambulatorio e non alla vita. Devo poter dire di essere autistica, per far comprendere che funziono in modo diverso e ho esigenze diverse dalle altre persone, senza che questo mi si ritorca contro.

Vogliamo i servizi, vogliamo tutto quello che serve, ma vogliamo anche la legittimità di essere come siamo e vogliamo una rappresentazione dignitosa di chi siamo.

La nostra identità non può essere patologizzata, quella di nessuno dovrebbe esserlo, perché una malattia è qualcosa che va curato, delle persone bisogna avere cura e sono due cose profondamente diverse.

Alice Sodi 

Si ringraziano per la gentile revisione Maria Chiara Paolini (Witty Wheels), Angela Colucci, Fabrizio Acanfora e Roberto Mastropasqua. Ho chiesto che l’articolo fosse rivisto anche da attivisti di altre categorie discriminate affinché possiamo avere voci sempre più condivise e trasmettere un messaggio sempre più trasversale e inclusivo di tutte le sensibilità, o almeno provarci.

Descrizione immagine: tre gabbiani in fila vicini tra di loro, guardano un gabbiano da solo un po’ distante su sfondo bianco.

English version

WHAT ARE WE GETTING AT WITH OUR NATTERING?

For some time now, a movement has been developing in Italy that aims at the social emancipation of Autistic people and those who follow us know this all too well.
As often happens, when we’re faced with something new and at least somewhat unexpected, it’s a bit hard to grasp right away the meaning of the phenomenon, its dynamics, and even its motivations. Its complexity isn’t obvious, even for those of us who are involved in some way; we risk misunderstanding it, or reading it in ways that may be simplistic and approximate, even demeaning.
What we’re dealing with, from my point of view, concerns the age-old question of medical categories that are turned into social categories.
To put it simply, if you fall into a medical categorization, especially if you’re faced with a stable condition (motor disability, deafness, autism, etc.), you’re automatically pigeonholed into a status: the medical category defines you as an exception to the norm, not only in a clinical sense, but also in a social sense.
In our society being an exception to the norm, confers a position of disadvantage, despite — sometimes also because of — one’s own or others’ attempts to romanticize this diversity.
Those who belong to the majority are often uncomfortable in relating with those who are different from them: having grown up in a norm-centric society, they do not have the tools to read diversity as part of normality. All of us — including divergent folks! — are trained to consider the norm as the key measure of value, but the only normal thing is variability, the fact that one can be human in so many different ways.
Instead of thinking of society as made up of groups of people, categorized according to different criteria, which unfortunately translate into different degrees of social values and rights, let’s try to think of it as a social fabric. The texture of a fabric is made up of many threads, many of which are similar to each other, but they are not all identical. While different, they all contribute to making the fabric what it is and even in the textile field we have come to understand that “any irregularities or non-uniformity of the fabric are not to be considered defects, but evidence of the value and authenticity of the product.”
“Ok. But with all this talk, you Autistic people, what’s your goal? There are many of you who need support, some in a consistent way, so you can’t deny the need for medical advice, people need services! “
Of course people need services. We need doctors. We need support workers, specialized teachers, aides. We require adequate social structures for everyone’s needs. There’s nothing wrong with having clinical needs and there’s no reason to be ashamed or distance yourself from them.
Highlighting the problems that arise from medical categories turning into social categories doesn’t mean to suggest that we claim that there are no clinical problems, nor does it mean denying people resources for them.
The matter is that the rest of the world shouldn’t be concerned with our clinical issues — or rather, it would be desirable that they relate to us as a complete individual, while acknowledging that we need a wheelchair, or sound-cancelling headphones for noise; or that we need to stim, or that we think differently. Otherwise what happens is that we’re put in a box — we stop being people with the right to have merits, defects, needs and especially desires and aspirations. We become the person in the wheelchair. Autistics. The Deaf. We become our medical label.
And all this doesn’t arise from us showing off our wheelchair, or being openly and blatantly Autistic — it depends on the fact that society isn’t truly capable of seeing us as individuals, as far as we can tell, because medical categorization puts us in a box, which provides for the recognition of some specific rights (medical care for example), but which doesn’t take into consideration all the others. It’s as if, given that we already need a type of support that isn’t needed by others, we must consider ourselves lucky that we’re granted that — and understand that things like wanting to travel, study, work, love, make mistakes, get angry, enjoy life, are secondary and therefore negligible needs. We are disabled / different, so we must focus on surviving, actually living is for those who are healthy, and it isn’t other people’s fault that we’re “broken” in this way.
This happens when we are forced to wear medical labels in society — and we’re so addicted to the system we live in that all of this seems normal or inevitable, because in the end “this poor person has had bad luck, what can we do about it?”
We can do a *lot* about it.
The whole process described above is not essential! It happens because, when we talk to the world about our conditions, we do it with pathologizing language: affected by autism, autism is a pathology, suffers from autism, suffers from wheelchairism.
But can we thrive in a social context that continually reminds us that we’re so unfortunate and twisted; that we suffer or — according to the majority — we should suffer from something? Whether that’s true or not, it doesn’t help us.
This is why some of those who engage in autism activism care a lot about this issue, certainly not because we reject the idea of ​​needing help, or out of a misplaced sense of pride, which I personally don’t agree with, as I specified in an article some time ago.
It’s a matter of starting to think about disability according to the social paradigm, leaving the medical paradigm behind hospital doors.
If I can’t walk, society is responsible for being accessible to me too, regardless of whether I define myself as ill. I must not be forced to reduce my life to an emblem of my pathology or — improperly — medicalized condition in order to obtain the services I need. Medicalization is dehumanizing, an act of extraordinary violence: we have internalized and therefore normalized it.
We need to find new, neutral words to talk about individuals who have different needs, to stop drawing on medical language to tell the world about people, because that language is suitable for a clinic and not for everyday life. I need to be able to say that I’m Autistic, to make it clear that I work differently and have different needs from other people, without this backfiring on me.
We want services, we want everything we need, but we also want the legitimacy of being who we are, and we want a dignified representation of who we are.
Our identity can’t be pathologized, no identity should be — because a disease is something that must be cured, while people must be cared for, and these are two radically different things.

Alice Sodi

Thanks to Andrew Dell’Antonio for the tranlating and Maria Chiara Paolini (Witty Wheels), Angela Colucci, Fabrizio Acanfora and Roberto Mastropasqua for their kind feedback. I asked for feedback on this essay also from activists of other marginalized identities so that we can have more and more shared voices, and convey a message that is increasingly intersectional and inclusive of all perspectives, or at least try to do so.

Image description: three seagulls in a row close to each other, watching a lone seagull a little distance away, on a white background.

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Neuropeculiar

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