L’11 settembre scorso «Superando.it» ha pubblicato un articolo firmato da Giovanni Marino, presidente dell’ANGSA, una delle maggiori e più antiche Associazioni che si occupano di autismo in Italia, articolo riguardante la ridefinizione del concetto di disabilità, espresso nei Decreti Attuativi della Legge Delega 227 (Legge Delega al Governo in materia di disabilità).
Un vero e proprio grido di allarme verso una possibile deriva catastrofica che si leggerebbe tra le righe di tali Decreti.
Scrive Marino: «La Legge non rende “agevole” il riconoscimento della condizione, poiché non consente il pieno esercizio dei diritti sanitari. L’assunto alla base della Revisione della definizione della condizione di disabilità ha infatti un’impostazione rigida che parte dal presupposto “io sono disabile perché la società ha costruito intorno a me barriere ed ostacoli”, tipica espressione di una disabilità motoria. Ma la complessità dell’autismo non rientra in questa ridottissima griglia perché non è conseguenza di barriere o ostacoli che la società ha costruito contro di loro. Le cause che producono questo disturbo del neurosviluppo sono in maggioranza ignote, poche quelle note. Per queste ragioni l’autismo prevalentemente richiede, prima di ogni altro sostegno, servizi di tipo sanitario, a partire dalla ricerca di base, per individuare le innumerevoli patologie».
Riteniamo importante rispondere a quanto scritto dal signor Marino.
L’assunto «io sono disabile perché la società ha costruito intorno a me barriere ed ostacoli» non è una «tipica espressione della disabilità motoria», qualunque cosa voglia dire questa affermazione. È invece un’espressione, parziale e decontestualizzata, del pensiero espresso nei Founding Statement dell’UPIAS (Union of the Physically Impaired Against Segregation, “Unione delle persone con disabilità fisica contro la segregazione”), da cui nasce il modello sociale della disabilità.
In questo manifesto dell’UPIAS non ci si esprime sull’eziologia delle varie condizioni o sugli impairment [“compromissioni”, “impedimenti”, N.d.R.], nemmeno per quanto riguarda le disabilità motorie, per un motivo molto semplice: non ci si occupa degli aspetti clinici di tali condizioni, ma di quelli sociali, come la possibilità di vivere e partecipare la società, avendo garantito un livello di qualità di vita che sia definibile almeno dignitoso.
In altre parole:
– il modello sociale della disabilità non si occupa di stabilire se una condizione è patologica o meno;
– il modello sociale della disabilità non è valido a seconda dell’eziologia di una condizione;
– il modello sociale della disabilità non si occupa di stabilire cosa deve fare un medico in merito alla specifica condizione;
– il modello sociale della disabilità non si sostituisce alla pratica medica, né alle sue definizioni.
Il modello sociale della disabilità, cui viene fatto implicitamente riferimento nell’articolo di Giovanni Marino, si occupa di analizzare i modi in cui la società, per come è organizzata, aggiunge elementi di disabilitazione evitabili alla vita delle persone già caratterizzate da condizioni specifiche, spesso di interesse medico.
Riportiamo di seguito un estratto dei Founding Statement: «Come Unione non siamo interessati a descrizioni di quanto sia terribile essere disabili. Quello che ci interessa sono i modi per cambiare le nostre condizioni di vita e quindi superare le disabilità che ci vengono imposte oltre le nostre limitazioni fisiche dal modo in cui questa società è organizzata per escluderci. A nostro avviso, è solo il nostro impairment che dobbiamo accettare; i problemi aggiuntivi e del tutto innecessari causati dal modo in cui siamo trattati sono essenzialmente da superare e non da accettare».
Appare dunque evidente che non vi sia un rifiuto verso le pratiche sanitarie, ma piuttosto che si è disposti ad accettare la disabilitazione che consegue in modo diretto e inevitabile dalla propria condizione, richiamando però al contempo la società – e quindi le Istituzioni – a una presa di responsabilità e all’impegno nel rimuovere le barriere che aggiungono gradi di disabilitazione alla persona, in virtù della sua condizione.
Sicuramente non è un’esortazione alle persone con disabilità motoria a rifiutare la fisioterapia, dato che devono lottare per non essere disabilitate (anche) dalla società. Semplicemente non avrebbe alcun senso.
La disabilità motoria è un caso che semplifica la comprensione di questo principio, ma non è l’unica condizione per cui si rende valido. Coltivare una cultura della disabilità che consideri le persone autistiche pienamente persone, con tutti i diritti riconosciuti a chi disabile (per ora) non è, come il diritto a una casa, un posto sicuro dove vivere, avere una vita sociale autentica, poter realizzare qualche desiderio o seguire qualche aspirazione, in che modo dovrebbe ledere la tutela dei diritti sanitari?
Partendo dall’assunto che il modello sociale della disabilità si fonda sull’imprescindibilità di una dignitosa qualità della vita, come potrebbero i diritti sanitari essere negati? Come potrebbe, senza garanzia dei diritti sulla salute, esserci qualità di vita?
È fondamentale non confondere gli ambiti di competenza e tenere a mente che, al di là degli aspetti clinici che interessano una determinata condizione, la vita delle persone con disabilità non può essere ridotta a questo. Al di fuori degli ospedali, degli ambulatori e degli studi dove si fa terapia, la disabilità smette di essere di esclusiva competenza medica e diviene pertinenza di una pluralità di voci, competenze e professionalità, molte delle quali esulano dal campo clinico. Al di fuori degli spazi medicalizzati, dove, a buona ragione, ci si occupa degli aspetti sanitari che interessano una condizione, c’è la vita della persona. E se non c’è, bisogna chiedersi il perché e servono professionalità che abbiano gli strumenti per dare una risposta fondata a questa domanda.
Studiare e capire come può evolvere la cultura e di conseguenza il sistema sociale affinché diventi più inclusivo, non si qualifica come “servizio sanitario”.
Per quanto la professione medica sia essenziale, questa non possiede tutti gli strumenti per gestire l’intera complessità (cause, dinamiche e implicazioni) del fenomeno “disabilità”, né del fenomeno “autismo”.
Questa necessità viene sancita anche dall’ICF, la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che fa riferimento al modello bio-psico-sociale.
Ecco, quindi, cosa significa quell’assunto che appare ancora tanto destabilizzante: fare in modo che persone con caratteristiche particolari, patologiche o meno, costituzionali o meno (è indifferente), non vengano ulteriormente disabilitate dalla società con la scusa che i loro bisogni sono troppo complessi, negando così diritti fondamentali, come la ricerca della realizzazione personale attraverso percorsi educativi, il lavoro, la socialità e l’affettività.
Dalle parole di Marino sembra che, implicitamente, i succitati diritti non valgano anche per le persone caratterizzate da compromissioni funzionali consistenti. Infatti, indicando la competenza sanitaria come l’unica che ha strumenti per intervenire sulla disabilitazione della persona, laddove tale competenza non si dimostri sufficiente, la collettività (senza fondi e strumenti) risulta legittimata ad arrendersi alle “sfide” logistiche, sociali e culturali che una condizione complessa pone. Il miraggio di una vita da vivere, svanisce velocemente.
Forse non si tiene conto del fatto che, pur con tutti gli interventi medici e psicoeducativi attuabili, molte persone non ridurranno così tanto la distanza che le separa dalle altre e continueranno a vivere in una società ineducata alla convivenza, che le considera un fardello che complica il bilancio e non esseri umani che hanno diritto a una vita dignitosa. Queste sono barriere che disabilitano le persone e sottraggono dignità, talvolta più degli impairment.
Eppure, nell’articolo stesso di Giovanni Marino si fa riferimento al diritto al lavoro e all’abitare. Perseguire questi obiettivi coinvolge competenze che vanno molto al di là dell’àmbito clinico e della ricerca di base, a cui si vorrebbe destinare la priorità assoluta, indicandole appunto, come destinazione prevalente di fondi. Imparare a cucinare, pulire e lavarsi da soli è sufficiente per far sì che una persona possa abitare lontana dalla sua famiglia d’origine? Non lo è. Serve una società che investa nella messa a sistema di soluzioni abitative per una varietà di persone differenti, con autonomie differenti e caratteristiche differenti. Serve investire nell’ampliamento delle reti di interdipendenza. Altrimenti non ci sarà una casa da abitare né una vita da vivere, dove spendere le autonomie che i servizi sanitari avranno, eventualmente, consentito di raggiungere.
Quando si tratta di disabilità, le priorità si distribuiscono in un ordine orizzontale: a parer nostro non si può decidere che l’intervento sanitario sia più importante rispetto a quello sociale, nel garantire una vita dignitosa alle persone. Altrimenti, non avrebbero senso nemmeno la cura e la riabilitazione. Se manca uno di questi due interventi avremo comunque mancato di tutelare i diritti fondamentali.
La disputa dei fondi, giocata attraverso il tentativo di orientare l’opinione generale contrapponendo àmbiti e prospettive che si vogliono far credere antitetici, ma che sono realmente complementari, è qualcosa che fa solo perdere tempo prezioso, brucia occasioni di miglioramento e alimenta le casse di chi, da questa disputa giocata male, ha solo da guadagnare.
Nel mentre, moltissime persone e famiglie continuano a patire la mancanza di un sistema sociale capace di garantire diritti nella pratica, perché le carte li prevedono, ma i bilanci non li consentono, dato che i fondi hanno avuto per decenni la destinazione prevalente auspicata nell’articolo.
Serve lavorare sulla cultura della disabilità, che in Italia è rimasta agli assunti monodimensionali rappresentati dalle parole di Marino: c’è un deficit, colmiamolo! E chi non lo colma? Chi non lo colma è disabilitato dall’autismo e in misura nettamente maggiore da una società che continua a considerare la disabilità un problema di esclusiva competenza sanitaria, per cui non si ritiene sia una responsabilità istituzionale occuparsi di come una persona disabile e non autonoma può vivere in società in modo dignitoso, rimuovendo le barriere fisiche, relazionali, culturali, cognitive, comunicative, economiche, organizzative che lo impediscono e questo non è affatto secondario.
La condizione di disabilità non dovrebbe essere considerata di esclusivo o prevalente interesse del Ministero della Salute (come è oggi), ma dovrebbe essere competenza e responsabilità di ogni Ministero: il diritto alla casa, al lavoro, al muoversi liberamente, etc. non sono diritti sanitari, per questo è fondamentale che i Ministeri del Lavoro, della Mobilità, della Scuola ecc. assumano la responsabilità e l’impegno di occuparsi di disabilità.
Ritenendo autorevole solo chi può sventolare una formazione sanitaria, continueremo a trascurare diritti importanti che, se negati, vanificheranno il senso del miglior intervento clinico o psico-educativo. La disabilità deve essere una questione inter-ministeriale.
Nel suo articolo, Marino fa riferimento alla complessità dell’autismo e ha ragione, l’autismo è un fenomeno estremamente complesso; aggiungiamo dunque alla sua la nostra riflessione: «L’autismo, anche in virtù della sua eterogeneità, è un concetto impossibile da esaurire all’interno di un unico orizzonte di senso, sia questo medico, socio-culturale, esperienziale o filosofico, ma che risulta essere invece polisemico, declinabile sulla base di diversi livelli concettuali che dovrebbero essere messi in relazione tra di loro, costantemente. La rinuncia a una o più dimensioni di senso, ai tavoli di lavoro, è una forma inaccettabile, pericolosa e anti-etica di riduzionismo che sottrae complessità alla comprensione del fenomeno autismo e si ripercuote sugli sguardi, le scelte, le pratiche e inevitabilmente sulle vite autistiche, tutte».
In conclusione, ricordiamo che l’ANGSA è ancora tra i maggiori interlocutori delle Istituzioni, quando si tratta di autismo. Per questo ci auguriamo che lo sguardo di essa sulla complessità del concetto di disabilità possa evolvere rispetto alle posizioni espresse nell’articolo, a tutela dei bisogni delle persone e delle famiglie che rappresenta.
Per Neuropeculiar:
Fabrizio Acanfora (presidente)
Alice Sodi (vicepresidente)
Roberto Mastropasqua (segretario)
Tiziana Naimo (consigliere)
Marvin Visonà (consigliere)
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