Occhio, quando stendete i vestiti ad asciugare

Non ricordo quanti anni avessi, ma allungandomi riuscivo ad arrivare al filo per stendere i vestiti lavati ad asciugare e ogni volta si ripeteva la solita storia.

A quanto pare facevo un sacco di cose “strane” da bambina.

Stendere i vestiti ad asciugare, ad esempio, aveva un suo rituale che, visto da fuori, si sarebbe facilmente potuto scambiare per una manifestazione di Disturbo Ossessivo Compulsivo, ma che per me era invece una specie di codice.

Le mollette dovevano rispettare un principio di parità, per capo o per vicinanza, dovevo evitare che qualche molletta rimanesse isolata in una posizione dispari.

Il codice era il seguente: il capo di vestiario era un progetto, le due mollette che lo reggevano erano in relazione rispetto al progetto, una molletta da sola con un proprio progetto era un outsider, ma se aveva vicino un’altra molletta, anch’essa col suo progetto, non lo era più, perché aveva accanto un’altra come lei, quindi, anche singolarmente, costituivano un modello possibile, valido, in quanto ripetibile. Inoltre due mollette singole, fisicamente vicine, potevano evolvere una relazione rispetto a un progetto più grande e condiviso, quindi ero molto attenta a non lasciare nessuna molletta senza possibilità di evolvere la sua condizione e questo si traduceva in una progettazione laboriosa per organizzare bene i vestiti che avevo a disposizione, con conseguente sgomento di chi non capiva perché ci dovessi mettere tanto e dovessi spostare vestiti già stesi.

Ora, possiamo provare a fare un’analogia tra le persone e le mollette. Lo so, sembra un po’ ridicolo e forse lo è, ma non importa, ridicolo non significa inutile.

Mi vorrei concentrare sulla sensazione, perché più che un ragionamento era una sensazione, che a conferire validità fosse la ripetibilità, ovvero la prossimità di più mollette/soggetti con le stesse caratteristiche e nelle stesse condizioni.

Questi infatti, riconoscendosi l’uno nell’altro, sapevano di non essere più incomunicabili, perché finalmente c’era qualcuno che aveva sufficienti riferimenti esperienziali per comprendere lo stato dell’altro, dato che era comune al proprio. La molletta che rimaneva isolata era come un extraterrestre, nessuno avrebbe visto in lei qualcosa di familiare, rassicurante, riconoscibile, in effetti era come se fosse in una bolla che la separava da tutti gli altri. Il parallelo con la condizione autistica è evidente.

Ma non è tutto, si trattava anche di avere una riconoscibilità sociale: se qualcuno avesse puntato il dito urlando “Guardate quel pazzo! Solo lui si comporta in quel modo!” il povero Tizio avrebbe potuto rispondere “Nossignore! Anche Caio lo fa. Noi siamo fatti così!”

A questo punto Tizio e Caio non sarebbero più due outsiders, sono diventati un modello possibile, come per le mollette, una categoria sociale.

Una categoria sociale è qualcosa di più di una categoria diagnostica: è un contesto all’interno del quale si sviluppa una cultura di riferimento, fatta di modelli comunicativi, modelli comportamentali, modelli estetici e chi più ne ha più ne metta.

Avere una cultura di riferimento significa ritrovare dignità, sapere che si è legittimati ad essere chi siamo e che, nel mondo, un posto lo abbiamo conquistato anche noi.

Non è difficile immaginare quanto un giovane autistico, quale che sia il suo “funzionamento”, gioverebbe nel sentire di appartenere a qualcosa di valido, riconosciuto e legittimo, proprio in funzione del suo modo di essere, e non nonostante questo. Significherebbe sentire di non essere nato guasto.

La neurodiversità sta vivendo una fase di cambiamento di status, una faticosa e complessa transizione da “oggetto clinico” a “oggetto socio-culturale”. Sarebbe auspicabile che operatori, insegnanti, genitori e tutte le figure che si occupano di autismo, favorissero questo passaggio: la creazione di una rete e di una cultura neurodiversa sempre più autodeterminate.

Occuparsi che i ragazzi abbiano un posto nel mondo significa anche questo.

Occhio, quando stendete i vestiti ad asciugare, mi raccomando.

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Neuropeculiar

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1 Comment

  • Esiste nell’universo intero la biodiversita’ che è ricchezza in ogni espressione della vita.
    La tendenza a “conformarsi” è una tendenza “automica” a servizio di un ideale o di gruppi predominanti ma, non è certo l’espressione massima della “libertà”.
    Ciascuno di noi è infinitamente libero
    E l’unico limite alla propria libertà è la libertà infinita dell’altro.
    Da qui nasce il “rispetto intelligente”
    di questi illimitati limiti!

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