Sulla disabilità

“Che la discussione sui modelli della disabilità non abbia raggiunto le persone non disabili è il riflesso di quanto disabilitanti siano diventate le partizioni che organizzano la conoscenza “normale”. Da una parte del muro concettuale, le persone [fisicamente] abili si vedono come “normalità”, in ragione di una prospettiva medica parziale e coltivano l’aspirazione impossibile a fruire di servizi sanitari dalla culla alla tomba, hanno perso di vista la loro essenziale “vulnerabilità”; dall’altra parte del muro le persone disabili sono viste come “anormali”, “devianti”, “persone con bisogni speciali”, bisognose di una altrettanto impossibile assistenza attraverso i servizi dalla culla alla tomba. (Vic Finkelstein)”

Disabilità, patologia, malattia, invalidità. Questi termini sono spesso utilizzati come sinonimi o vengono associati tra loro, spesso, in maniera non corretta. L’uso che se ne fa e il significato che gli si dà è dipendente da esperienza, cultura e modello di riferimento della disabilità e ha un impatto sulla vita delle persone verso le quali li utilizziamo.

Disabilità è un termine molto generico e che riguarda tutte le persone perché tutti possono essere disabili in un momento della loro vita. La disabilità non è necessariamente permanente e non riguarda necessariamente aspetti legati al fisico.
Genericamente per disabilità si intende una ridotta capacità di interazione con l’ambiente, dovuta a fattori fisici o psichici. Tali fattori possono essere temporanei.
La disabilità cambia valore in funzione della prospettiva da cui la si guarda. Esistono due modelli della disabilità:

  • Il Modello medico: vede la disabilità come un problema della persona, causato direttamente da malattie, traumi o altre condizioni di salute che necessitano di assistenza medica sotto forma di trattamento individuale da parte di professionisti.
  • Il Modello sociale: la disabilità concerne gli svantaggi causati dall’ambiente fisico e sociale che “restringe” la vita delle persone con problemi di funzionamento.

Il modello medico fa riferimento alle definizioni della disabilità dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) che sono l’ICIDH (International Classification of Impairments Disabilities and Handicaps), in essere fino al 1999, e l’ICF (International Classification of Functioning o Classificazione dello stato di funzionamento) attualmente in uso.

l’ICIDH, che ha una prospettiva organicistica e biomedica, ha come punto di partenza lo stato morboso (malattia congenita o sopravvenuta, incidente) in seguito al quale si origina una perdita (o anomalia) funzionale, fisica o psichica, a carico dell’organismo. Tale perdita può sfociare in disabilità, intesa come limitazione della persona nello svolgimento delle “normali” attività, che può portare all’handicap, ovvero allo svantaggio sociale che si manifesta nell’interazione con l’ambiente. 
L’OMS, attraverso l’ICIDH, tenta di realizzare un compromesso con il modello sociale della disabilità ma, nella mediazione, fallisce con l’introduzione del concetto di handicap: “L’handicap è una condizione di svantaggio vissuta da un soggetto in conseguenza a una menomazione o ad una disabilità che limita o impedisce la possibilità di ricoprire il ruolo normalmente proprio a quella persona (in base a età, sesso, fattori culturali e sociali). L’handicap è caratterizzato dalla discrepanza fra l’efficienza o lo stato del soggetto e le aspettative di efficienza e di stato sia del soggetto stesso, che dal particolare gruppo di cui fa parte.”.

L’ICF si basa su una prospettiva biopsicosociale, che ha una visione multidimensionale e che non si limita solo ai fattori organici, definiti come “funzioni” e “strutture corporee”. In effetti l’intero schema dell’ICF è fondamentalmente una ripartizione in due macrocategorie, a loro volte ulteriormente suddivise:

  • Parte 1: Funzionamento e disabilità, comprendente i fattori organici;
    1. Strutture corporee (organi e strutture anatomiche in genere)
    2. Funzioni corporee (le funzioni fisiologiche espletate da tali strutture)
  • Parte 2: Fattori contestuali;
    1. Fattori ambientali (ovvero dell’ambiente fisico – sociale)
    2. Fattori personali, consistenti nella capacità d’interazione con l’ambiente fisico – sociale.

Ogni fattore interagisce con gli altri, ed i fattori ambientali e personali non sono meno importanti dei fattori organici. Lo schema generale è: funzioni e strutture corporee ↔ Attività ↔ Partecipazione.

In sostanza l’ICIDH valutava i fattori di disabilità iniziando dalla perdita, mentre l’ICF valuta le abilità residue dell’individuo (tale ottica è evidente sin dal nome dello standard, ovvero “classificazione internazionale delle funzionalità”), sostituendo al concetto di “grado di disabilità” quello di “soglia funzionale”. 
Ciò che sancisce l’Organizzazione Mondiale della Sanità con l’ICF, è che questo concetto di disabilità non vuole evidenziare i deficit e gli handicap che rendono precarie le condizioni di vita delle persone, ma vuole essere un concetto inserito in un continuum multidimensionale, approccio più che condivisibile. Ognuno di noi può trovarsi in un contesto ambientale precario e ciò può causare disabilità. 

Concludendo, nel modello medico la disabilità è caricata sulla persona e la gestione della disabilità mira alla cura delle cause organiche oppure all’adattamento ad esse da parte dell’individuo e a un cambiamento comportamentale. L’assistenza medica è vista come la questione prioritaria, e a livello politico la risposta principale è quella di modificare o riformare le politiche di assistenza sanitaria. Il disabile è una persona vulnerabile che va accudita e viene riconosciuta la necessità di dare attenzione ai suoi bisogni, ma che non ha aspirazioni. “La medicina torna utile in tanti ambiti della vita, in questo caso [Ndr. nel caso dell’ICF] nell’elaborazione di una griglia utile a finalità amministrative, il problema è quando diventa il solo piano di riferimento per una categoria di persone, in questo caso i “disabili”.” (E. Valtellina). Quello che manca al modello medico è che non si pone su un piano affermativo/emancipativo, politico e sociale.

Quando parliamo di Modello sociale della disabilità, esattamente di cosa parliamo? Quando è nato e su che presupposti?

Il Modello sociale si sviluppa a partire dagli anni 1960, quando  diversi movimenti di persone disabili sviluppano un approccio nuovo che dà vita a questo modello. Secondo questo modello, la disabilità è il risultato dell’inadeguatezza della società alle specificità dei suoi membri e ha origini esterne all’individuo. In A critical condition, Paul Hunt scrive: “voglio considerare questa condizione particolare prevalentemente nei termini della nostra relazione agli altri, al nostro posto nella società […] il problema della disabilità non risiede unicamente nel deficit funzionale e nei suoi effetti su di noi come individui, ma anche, e soprattutto, nell’area della nostra relazione con le persone ‘normali’” (Hunt, 1966, 146). Il genere di interventi proposti cambia: l’approccio sociale abbandona l’ideale di guarigione, per promuovere lo sviluppo delle capacità di cui la persona dispone, allo scopo di renderla autonoma nel quotidiano.
Vic FINKELSTEIN, uno dei creatori del Modello sociale, scrive: “Ma l’insieme di conoscenze acquisite nello sviluppo scientifico, è rimasto nelle mani di uno sparuto gruppo di esperti e accademici. Nel tempo, ciò ha portato a cristallizzare gli interventi in menù istituzionali di buone pratiche cui son precettati i personali delle cliniche per la riabilitazione, dei servizi sociali, dell’educazione speciale e così via. Tutta questa profusione di sapere si è progressivamente appoggiata su un dogma indiscusso: che un deficit porti necessariamente a una vulnerabilità sociale. Ciò malgrado la storia insegni esattamente il contrario, cioè che proprio la vulnerabilità naturale degli esseri umani ha forgiato significativamente lo sviluppo complessivo del moderno macchinario sociale. 
Anziché essere un vincolo, le nostre imperfezioni in relazione agli altri animali possono essere considerate una caratteristica essenziale del nostro essere umani […] “Assecondare i bisogni” ad esempio, è uno dei temi di intervento del personale professionale sulle persone disabili. Certamente riconoscere che le persone disabili hanno bisogni è un progresso storico rispetto al considerare la disabilità una marca che ci rende meno che umani, anche se la verità di questa affermazione dei bisogni muove dalla separazione dei bisogni del disabile dalle sue aspirazioni come persona. I nostri “bisogni” sono quindi conseguenza dei “problemi” che ci troviamo ad affrontare, a differenza delle persone non disabili i cui bisogni sono espressi da se stessi per se stessi nel percorso di vita che asseconda le loro aspirazioni.”.
Troviamo ampiamente espressi i concetti del modello sociale, le persone disabili non devono essere viste attraverso i loro deficit, gli interventi non possono essere votati solo alla cura o alla riabilitazione, le persone disabile hanno gli stessi bisogni di tutte le altre persone. Dal nostro punto di vista, è la società che disabilita le persone con una problematica fisica (impairment). La disabilità è qualcosa imposto sopra i nostri deficit, attraverso il modo in cui siamo isolati ed esclusi senza necessità dalla piane partecipazione alla società. Le persone disabili sono pertanto un gruppo sociale oppresso. (UPIAS, 1976, 3-4)”. La disabilità non ha una stretta correlazione con una patologia, malattia, perdita di funzionalità o condizione. La disabilità è la risposta che la società da a uno di quei fattori. 

Come si inserisce l’autismo nel discorso sulla disabilità e nel contesto dei due differenti modelli con cui la si guarda?
Il discorso è molto ampio, non perché “lo spettro autistico è molto ampio”, che rappresenta uno stereotipo da superare, quanto perché il tema è spinoso e il rischio di scatenare polemiche è ampio, quasi garantito.
Fino al 1994 la possibilità di diagnosticare una persona autistica era data dalla presenza di compromissione funzionale del linguaggio (non verbalità o scarsa verbalità della persona, il riferimento era il DSM-III, pubblicato nel 1980), assieme a marcate difficoltà sociali, comportamenti insoliti e rigidità, ritmi o sequenze inusuali nello sviluppo e iper/ipo sensibilità all’ambiente. A tutto ciò vi era molto frequentemente associata una disabilità intellettiva. Prima del 1980 l’unico modo di diagnosticare l’autismo erano i criteri dettati da Leo Kanner e Bruno Bettelheim, rivisti verso gli anni 1970 da Michael Rutter.
In questo contesto, la collocazione all’interno della disabilità, per come la si definisce nel modello medico, pare evidente.

Nel 1994 viene pubblicato il DSM-IV che introduce la Sindrome di Asperger, in riferimento all’autismo senza disabilità intellettiva e senza compromissione funzionale del linguaggio. La Sindrome di Asperger viene successivamente eliminata, perché a seguito di studi risulta non avere sufficienti caratteristiche distintive rispetto all’autismo, e nel DSM-5 (si scrive col numero arabo e non più romano), pubblicato nel 2013, vengono introdotti i Disturbi dello Spettro Autistico che comprendono i criteri diagnostici dell’autismo e delle condizioni concorrenti. La diagnosi è quindi di autismo con/senza disabilità intellettiva (con vari gradi) e/o con/senza compromissione funzionale del linguaggio (con vari gradi).
Dal 1994 “esiste” quindi questa nuova categoria di autistici che non ha disabilità evidenti, non ha disabilità intellettive, non ha disabilità legate al linguaggio (uso “ha disabilità” per sottolineare la prospettiva biomedica).
Da che prospettiva queste persone sono disabili? Da quella relazionale, sociale e emotiva. Sono poco e per nulla empatici, hanno una mancanza di Teoria della Mente, sbagliano a rapportarsi con gli altri, hanno quindi dei deficit che vanno curati, riportati nella norma, ri-abilitati. A questo vanno aggiunte stereotipie, ecolalie, ipo o iper sensorialità, modalità di gioco non funzionale e una ulteriore lunga lista di comportamenti inadeguati o socialmente inaccettabili.
Questo, ovviamente, sempre secondo il punto di vista medico e avendo come riferimento la norma. Norma che va ristabilita e quindi si procede a stilare anche per loro una serie di protocolli di intervento per curarli, ri-abilitarli e portarli quanto il più possibile ad essere normali.

Questa prospettiva cambia notevolmente se guardiamo l’autismo con lo sguardo del modello sociale della disabilità. Le persone devono poter vivere la vita al meglio delle loro possibilità, nonostante gli eventuali problemi di funzionamento, e devono partecipare alla vita sociale. Quindi gli interventi non possono essere unicamente incentrati sulla persona ma devono essere effettuati anche sulla società perché è la struttura sociale che crea la disabilità in relazione al funzionamento della persona. Se sono disabile relazionale il problema sarà sì mio, ma non solo mio, in parte è della società che non mette in atto gli aggiustamenti idonei per permettere l’instaurarsi di un corretto processo di relazione tra me e gli altri. Come si evince, il modello sociale non è solo teoria e non esclude né l’accesso a interventi e terapie né ad un supporto medico e si applica a tutti, non solo ad una tipologia di persone autistiche (o persone disabili).

Il discorso non è semplice e il modello sociale della disabilità non è di immediata comprensione perché la nostra cultura è permeata dal modello biomedico e da un approccio organicista (il problema risiede sempre e comunque in un organo, che sia un piede o il cervello: aggiustando l’organo, risolvo il problema) e di conseguenza la sguardo della società sulla disabilità subisce tuttora queste influenze. La speranza è che grazie ai movimenti di attiviste e attivisti disabili, autistiche e autistici ed  anche al ICF promosso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, il modello sociale della disabilità, o una sua ancora più avanzata visione, venga interiorizzato dalle persone, disabili e non disabili, e adottato dalla società.
Prima di chiudere il post, vorrei affrontare ancora un paio di punti: la legge 104 e la mancanza di empatia, ToM e skill sociali da parte degli autistici.

La legge 104/92, come indica il numero dopo lo slash, è stata introdotta nel 1992 e quindi risente sia del modello medico della disabilità che dell’approccio organicista. Questo spiega perché per ottenerla il requisito fondamentale è dimostrare di essere invalidǝ (e quindi disabilǝ) a causa di una perdita funzionale e necessitare di avere un supporto medico e/o riabilitativo. Questa precisazione nasce dalle obiezioni che vengono sollevate ogni volta che si parla di modello sociale, come se questo  fosse garanzia della perdita di accesso alla 104. Sicuramente modello sociale e 104 non sono totalmente sovrapponibili ma il problema non è certo il modello sociale quanto la legge 104/92 che è superata nelle sua fondamenta. Quello che associazioni e singoli dovrebbero fare è attivarsi per cambiare la legge, magari sottraendo le energie e il tempo alle singole battaglie per ottenere la terapia per la singola persona o per mandarla nel posto B invece del posto A.
La legge 104/92 serve unicamente a fornire cure e servizi, che sicuramente servono, ma che non sostituiscono la vita.

Empatia, Teoria della Mente, skill sociali! Questi termini vengono regolarmente utilizzati per parlare di autismo o di persone autistiche al fine di sottolinearne la carenza, parziale o totale, per associarli alla parola “deficit”: deficit empatico, deficit di ToM, etc.. Ma è vero?

Attenzione spoiler!

No, non è vero. Le persone autistiche non hanno nessuna mancanza di empatia, non hanno nessuna mancanza di Teoria della Mente e non hanno carenti  abilità sociali. 
Questa credenza, non la si può definire in altro modo, è tuttora radicata ma sottende ad una teoria di Uta Frith, Simon Baron-Cohen e Alan M. Leslie e che è stata abbandonata nel 2012 per essere sostituita dal lavoro del Dr. Damian Milton, la teoria del Double Empathy Problem. Che ci dice questa nuova teoria, che sta trovando ampio riscontro in studi recenti? Ci dice che il problema di empatia, ToM e skill sociali non è legato alle persone autistiche ma alla relazione tra persone tipiche e persone autistiche e nello specifico alle differenze neurologiche che fanno si che si verifichi un problema di incomprensione reciproco, simile a quando due persone di due culture completamente differenti entrano in relazione. Non è (solo) intervenendo sulle persone autistiche che si superano i problemi ma intervenendo su tutti, persone autistiche e persone non autistiche. Quindi non più deficit ma differenze.

“Le persone [fisicamente] abili hanno deposto la loro naturale “vulnerabilità” e la loro assoluta dipendenza sociale su di noi, come se fosse caratteristica specifica delle persone disabili. La nostra “vulnerabilità” è vista pertanto come un attributo che ci separa da chi è essenzialmente normale – non siamo abbastanza umani (il modello della “morte sociale” della disabilità, Vic Finkelstein, 1991).”


Riferimenti bibliografici:

– OMS, Decima Revisione della Classificazione Internazionale delle sindromi e dei disturbi psichici e comportamentali (ICD-10), Masson, Milano, 1992.
– OMS, Classificazione Internazionale delle menomazioni, disabilità e degli handicap (ICIDH), Cles, 1980.
– OMS, Classificazione Internazionale del funzionamento e delle disabilità, ICIDH-2, Bozza Beta-2, versione integrale, Erickson, Trento, 1999.
– OMS, Classificazione internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF), Erickson, Trento, 2001.
ICF versione breve, edizioni Erickson
– LEGGE 5 febbraio 1992, n. 104 Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate. Gazzetta Ufficiale Disabili Forum
– Parti del testo in cui si fa riferimento ai modelli ICIDH e ICF sono tratti dal sito disabili.com
Teoria della Mente, tratto dal sito State of Mind
Il Disturbo dello Spettro autistico nel passaggio fra DSM-IV e DSM-5: cambiamenti e implicazioni, tratto dal sito State of Mind
The need for a new medical model. A challenge for biomedicine. Science 196:129-136, Engel GL (1977)
The looping effects of human kinds. [Capitolo di Causal Cognition A Multidisciplinary Debate Edited by Dan Sperber, David Premack, and Ann James Premack; Oxford University Press], Ian Hacking (1995).
Per emancipare gli studi sulla disabilità, Vic FINKELSTEIN (Trad. Enrico Valtellina), Persona e danno
Double Empathy, Authors: Damian Elgin Maclean Milton, Brett Heasman, Elizabeth Sheppard (26 April 2018, Springer Link) 
The Double Empathy Problem, Dr. Damian Milton
Autism and the Double Empathy Problem, Dr Damian Milton, University of Kent (video)
The Double Empathy Problem, Dr Damian Milton, Autism Explained Online Summit 2020 (video)
L’autismo oltre lo sguardo medico, di Enrico Valtellina (a cura di), edizioni Erickson
Disability studies. Emancipazione, inclusione scolastica e sociale, cittadinanza, di Roberto Medeghini (Autore), Enrico Valtellina (Autore), Simona D’Alessio (Autore), Giuseppe Vadalà (Autore), Angelo Marra (Autore), edizioni Erickson
Disability studies e inclusione. Per una lettura critica delle politiche e pratiche educative, Aa. Vv., edizioni Erickson
Norma e normalità nei Disability Studies. Riflessioni e analisi critica per ripensare la disabilità, di Roberto Medeghini, edizioni Erickson
Stigma: Note sulla gestione dell’identità degradata, Goffman, E., Verona, Ombre corte, 2018 (1963).
Stigma: The experience of disability, Hunt, P., London, Chapman, 1966
Fundamental Principles of Disability, THE UNION OF THE PHYSICALLY IMPAIRED AGAINST SEGREGATION (UPIAS) and THE DISABILITY ALLIANCE, November, 1976

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