AUTISMO TRA DISABILITA’ IDENTITA’ E ORGOGLIO

Eccoci giunti alla giornata dell’orgoglio autistico: l’Autistic Pride Day.

Oggi, più di sempre, il mondo che gira intorno all’autismo si divide tra coloro che difendono l’orgoglio autistico e coloro che lo rinnegano, considerandolo uno sfregio alle difficoltà che le persone autistiche e i loro familiari incontrano nel quotidiano e un attentato al sistema di aiuti e servizi faticosamente conquistati.

Da una parte abbiamo alcune persone autistiche che ribadiscono che l’autismo non è una disabilità e che bisogna andarne fieri.
Dall’altra ci sono coloro che reagiscono in modo comprensibilmente stizzito perché, per l’appunto, sono o convivono con persone autistiche francamente disabili.

Entrambe queste posizioni mancano di alcune prospettive necessarie a cogliere il senso e il potenziale del Pride.
Cerchiamo allora di fare un po’ di ordine.

Iniziamo con la presa di distanza dal concetto di disabilità, il famoso “l’autismo non è una disabilità”, una posizione problematica a molti livelli.
E’ comprensibile che una persona adulta, che bene o male ha la sua vita e ha appena ricevuto una diagnosi, senta il bisogno di difendersi da quella che siamo educati a considerare una disgrazia senza fine: l’idea della disabilità, come è comprensibile il desiderio di tentare di emancipare socialmente l’etichetta autismo, che oggi è caratterizzata da una profonda e complessa stigmatizzazione, che ha conseguenze molto concrete sulla vita delle persone in termini di esclusione sociale, bullismo, basse aspettative, scarse possibilità offerte, scarso accesso al lavoro e alla vita indipendente, salute mentale, tassi suicidari.
Tuttavia dobbiamo stare molto attenti a come lo si fa.

Disabilità non è una parola sporca, ma è un concetto sul quale pende uno stigma ben più antico e profondo di quello che interessa l’autismo.
Il mondo è pieno di persone disabili e dire “io non sono disabile perché l’autismo non è una disabilità” equivale a dire “io non sono come loro [le persone disabili]”. Una frase che rinforza la sensazione che stiamo parlando di una vita che vale meno, che è una disgrazia, che è profondamente indesiderabile, e che lascia tutte quelle persone, comprese quelle autistiche disabili, alla periferia della società.
Così un tentativo di emancipazione dell’autismo si trasforma in un’opera di radicalizzazione dello stigma sulla disabilità.

Ma non è tutto qui.
Quando parliamo di disabilità dovremmo anche chiarire di cosa stiamo parlando esattamente perché il concetto di disabilità esprime significati diversi a seconda del paradigma a cui fa riferimento.

Quando le persone dicono “disabilità” di solito si riferiscono alle caratteristiche che rappresentano una qualche limitazione per la persona in questione: paraplegia, sordità, cecità o, anche nel caso di alcune persone autistiche, disabilità intellettiva, aprassia verbale, disprassia, etc.
Questo è come la disabilità viene declinata secondo il paradigma medico e in questo senso molte persone autistiche sono disabili in quanto posseggono caratteristiche che implicano una limitazione delle loro autonomie.

Altrə per disabilità intendono il grado di “impedimento a fare\essere” che le persone sperimentano a fronte di una mancata o inadeguata presa in carico della società, rispetto alle caratteristiche della persona.
Questo è il paradigma sociale della disabilità e in questo senso praticamente tutte le persone autistiche sono disabili o, prendendo spunto dai paesi anglofoni, disabilitate.

Nel paradigma medico quindi la causa della disabilità risiede nella stessa persona disabile e nelle sue caratteristiche.

Nel paradigma sociale la disabilità è il risultato di ciò che la società NON ha fatto per mettere la persona in condizioni di raggiungere una buona qualità di vita, in termini di erogazione di servizi, terapie, adeguamenti ambientali per l’abbattimento delle barriere architettoniche e sensoriali (rampe, indicazioni per ipovedenti, adeguamenti per l’ipersensibilità sensoriale, etc.), ma anche di quelle culturali e relazionali.

Sia il modello medico che quello sociale prevedono l’erogazione di servizi a fronte delle necessità delle persone, ma, se nel primo questi si limitano agli interventi riparativi (terapie riabilitative, protesi, etc) che puntano a ridurre la limitazione data dalla problematica/caratteristica che è insita nella persona, nel secondo la società è indicata come piena e diretta responsabile della riduzione del grado di disabilitazione, sia attraverso interventi rivolti alla persona e alle sue caratteristiche, sia agendo sulla società con adeguamenti ambientali, culturali, relazionali, sensoriali, etc. con l’intento di permettere la piena emancipazione e partecipazione.

Chiarito quindi che le persone autistiche sono talvolta disabili secondo il modello medico e sistematicamente disabilitate secondo il modello sociale, possiamo chiederci che senso abbia celebrare il Pride con frasi come “L’autismo non è una disabilità”.
Non ce l’ha, infatti, anche se l’autismo è una condizione neurobiologica che di per sé non implica sempre e necessariamente degli impedimenti, soprattutto laddove il contesto di vita risulti adeguato alle caratteristiche della persona autistica, in quanto ad oggi siamo ben lontani da una società che plasma le sue logiche sulla varietà delle persone che la compongono. Ad oggi la società è disabilitante per tutte le persone autistiche, quale che sia il livello di supporto richiesto.

Ma cos’è quindi il Pride Autistico?
È sostanzialmente una rivendicazione identitaria che intende superare lo stigma che pende sull’etichetta Autismo.

Il movimento identitario non ha bisogno di rinnegare il concetto di disabilità per essere valido.
Nella storia recente abbiamo esempi eccelsi di come i movimenti per la Disability Culture abbiano ottenuto più di chiunque altro in termini di servizi, rispetto e trasformazione della società e l’hanno fatto rivendicando la disabilità stessa come un’identità positiva e dignitosa.

Il derby tra disabilità e identità è un falso problema. Basta approfondire queste tematiche per comprenderlo.

L’Orgoglio Autistico s’impone quindi come strategia emancipativa da parte di quelle persone che affermano la dignità della propria esistenza, senza bisogno di aggiungere l’espressione “nonostante l’autismo”, semplicemente perché nessuno dovrebbe rammaricarsi di essere chi è.
Riuscire ad essere autistici a testa alta, nella piena legittimazione di se stessi, è un elemento indispensabile per il conseguimento della tanto agognata qualità di vita, perché ha a che fare con quanto ci sentiamo in diritto di esistere e fare parte di questo mondo.

Il Pride Autistico è un patto di alleanza con se stessi, significa “Sono qui, esisto, sono autisticə e sono parte di questa società a pieno diritto, come tutti”.

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Neuropeculiar

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